La Nostra Storia
Fondazione U.O.E.I. Treviso nel 1922
Il testo riprende il saggio di Alessandro Casellato, Lascia la bettola fumosa. L’Unione Operaia Escursionisti Italiani a Treviso 1922-1925, in “Lancillotto e Nausica”, vol. 2-3, 1998, pp. 34-45.
1° Capitolo – PER IL MONTE, CONTRO L’ALCOOL
Candido Cabbia e la nascita dell’Unione Operaia Escursionisti Italiani a Treviso (1922-1926)
So che i andava via aea domenega e i fazeva anca tanta strada a piè… e me zio [Odino Fregonese] iera anca claudicante… nonostante i fazeva un sacco de strada… e dopo i fazeva una campagna contro l’alcolismo… e i cantava: “Lascia la triste bettola fumosa…”. Iera da ridar perché magari i andava in giro e i vegneva a casa che i gavea bevuo e i cantava “lascia la triste bettola fumosa”… e dopo i cantava a canson dea Uoei:
“Aprite le porte / che passano, che passano / aprite le porte che passano / i bei Uoei / forti e bei”
[test. Bruna Fregonese, 1.8.1996]
Dunque qualcosa rimane, nella memoria dei trevigiani, della UOEI “ruspante” e vociante dei primi anni Venti. Anzi, a cercar bene, c’è ancora chi – come Luigi Armellin, l’ex comandante dei vigili di Treviso – conserva, tra i cimeli familiari, la vecchia tromba del papà Costante, ultimo reperto della famosa “fanfara uoeina” che accompagnava i soci nelle gite e nelle passeggiate.
Sono passati settantasei anni dalla fondazione della UOEI trevigiana: la generazione di chi allora c’era e aveva vent’anni è inevitabilmente scomparsa, e il ricordo di quella prima stagione di “pionieri” è sempre più labile e difficile da comporre. Di quell’epoca, l’archivio della sezione (due grossi armadi non troppo ordinati) non conserva che qualche vecchio opuscolo e due album di fotografie: fotografie di gente allegra, di comitive di uomini e donne, vestiti e pettinati secondo la moda del primo dopoguerra.
Ma cosa è stata l’UOEI trevigiana? Che ruolo ha avuto nelle vicende burrascose degli anni Venti? Perché ne sono rimaste così poche tracce, anche tra le carte “ufficiali” della sezione cittadina?
Due indizi aiutano a sciogliere queste domande: due tracce, minime, che affiorano proprio da quegli armadi di cose vecchie.
Primo indizio: la copia di una lettera, datata 2 novembre 1926, su carta intestata del Partito Nazionale Fascista, inviata da Augusto Turati (noto “ras” bresciano, futuro segretario generale del PNF) al suo concittadino Giacomo Voltolini, presidente del Comitato centrale della Unione Operaia Escursionisti Italiani. Il testo del messaggio è secco e allusivamente minaccioso: “Caro Voltolini, ho avuto il Suo saluto con la fotografia a posa napoleonica. La ringrazio, ma desidero che di U.O.E.I. non si parli più; oggi esiste solo l’Opera Nazionale Dopolavoro Escursionistica. Ci siamo intesi?”.
Secondo indizio: un ritratto fotografico, trovato in uno degli album, di un giovinetto ventenne, sorridente, ben pettinato: una mano anonima gli ha disegnato un’aureola attorno alla testa e ha scritto sotto: “Il protettore dell’UOEI: San Candido”.
Gli indizi, a dire il vero, suggeriscono nuove domande, aprono altre piste di ricerca: come mai ci fu quell’inquietante interessamento di uno dei maggiori dirigenti fascisti per la UOEI? Come spiegare quella strana mescolanza tra sport e politica, tra escursionisti ed ex squadristi neri? E chi era quel Candido che compariva in una sorta di “santino” fatto a mano? Quali grazie aveva dispensato per meritarsi un simile trattamento, una gratitudine così particolare?
2° Capitolo – San Candido a Treviso
Aveva appena vent’anni, Candido Cabbia, quando salì sul Col Visentin, con un gruppo di amici, per fondare la sezione trevigiana dell’UOEI, l’8 gennaio 1922. Era nato a Mogliano nel 1901, ma si era trasferito ancor piccolissimo a Treviso, insieme alla famiglia. Suo nonno – di nome Candido, come lui – era stato un personaggio piuttosto noto a Mogliano negli ultimi decenni del secolo scorso: aveva un’osteria in paese e – come molti osti dell’epoca – qualche simpatia per il socialismo. Negli anni settanta dell’Ottocento – agli albori, cioè, della grande crisi agraria – era nell’osteria del siòr Cabbia che si riunivano quei contadini che volevano parlar male dei padroni, e sempre lì potevano ascoltare qualche oratore progressista che li spingeva a non scappare nella “Merica”, ma ad unirsi per cercare di “raddrizzare le cose” qui, in Italia. Probabilmente, proprio in quei locali gli artigiani del paese avevano costituito la Società operaia di mutuo soccorso di Mogliano, di cui il signor Cabbia era uno degli amministratori. Non si sa cosa fosse rimasto degli insegnamenti del nonno nel più giovane Candido, quando crebbe a Treviso nel primo decennio del secolo, cambiando spesso casa e studiando all’Istituto tecnico commerciale. Forse, però, se il padre Andrea assegnò a lui il nome del patriarca (con i suoi impliciti richiami laici e illuministi che rinviavano al Candide di Voltaire), non fu solo per rispetto delle tradizionali genealogie familiari, ma anche per una fedeltà più profonda ai valori “politici” della famiglia (le cui risonanze, dopo tutto, ritornavano forse persino nel nome dell’altra figlia: Anita, come la compagna di Garibaldi).
Alla morte del padre, durante la guerra, Candido ereditò prematuramente – era appena sedicenne – anche il ruolo di capofamiglia, insieme ad una piccola impresa commerciale. Pur lavorando e frequentando l’università alla Scuola superiore di commercio di Venezia, Candido Cabbia jr. era riuscito a ritagliarsi il tempo per non abbandonare la sua passione per la montagna, distinguendosi anzi tra i giovani universitari aderenti al CAI anche come oratore nelle riunioni ufficiali. Proprio da una costola del CAI fece nascere, all’inizio del 1922, la sezione trevigiana dell’Unione Operaia Escursionisti Italiani. A guardar bene, dunque, gli intendimenti di Candido non si erano di molto discostati da quelli del nonno omonimo: che cos’era la “sua” UOEI se non una nuova “casa” per i ceti popolari della città, per quegli operai e impiegati con cui il giovane Cabbia voleva condividere le gioie dell’alpinismo o, almeno, il piacere di stare insieme all’aperto?
Scriveva un giornale dell’epoca:
Scopo precipuo della UOEI è di contribuire positivamente e seriamente alla educazione fisica, morale ed intellettuale del popolo italiano, specialmente negli operai e impiegati. La sua attività pratica comprende gite facili e brevi per i soci più anziani e le famiglie, gite istruttive, feste campestri, attendamenti economici estivi ai monti ed al mare, mentre ai soci più giovani e vigorosi sono riservate l’attività veramente alpinistica con tutte le sue emozionanti e impareggiabili soddisfazioni, le marce di resistenza ecc. L’ambiente “Uoeino” è prettamente “famigliare” intonato alla massima semplicità e cordialità e gli operai e i modesti impiegati vi si trovano veramente in “casa propria”. Tutte le idee sono rispettate: le questione politiche e religiose sono rigidamente escluse.
3° Capitolo – La Casa è di tutti
Ancor prima che per le idee politiche che circolavano nell’ambiente, era la stessa vita associativa a rappresentare una naturale palestra di democrazia: saper stare in compagnia, darsi delle regole e rispettarle, votare per eleggere i propri rappresentanti alle cariche sociali, accettare le opinioni dei compagni di squadra o di cordata, per gli uoeini non erano norme astratte ma valori che si imparavano quotidianamente, piccole forme di civiltà che si conquistavano durante le gite e frequentando la sezione.
Come era stata una conquista, per l’epoca, essere riusciti a creare un ambiente “pubblico” dove potessero convivere – alla pari – uomini e donne: le fotografie dei primi anni parlano chiaro, con quella mescolanza di volti maschili e femminili allo stesso modo intenti a fissare l’obiettivo. Anzi, era proprio una donna – Anita Cabbia – a dirigere l’ambitissima squadra “Audax”, riservata ai soci più giovani e dotata di vessillo, uniforme e canzoni proprie. Conrto, non tutti potevano partecipare alle iniziative uoeine: per i più poveri le spese per il viaggio, il vestiario e l’equipaggiamento erano ancora un ostacolo insormontabile.
Ricordava, infatti, il vecchio Remigio della sua adolescenza da ragazzo povero:
Poteva partecipare all’UOEI chi stava benino: l’impiegato di banca o l’impiegato di un’industria. Perché l’UOEI era un circolo che andavano a sciare, a far gite, magari istruttive, ma anche loro volevano essere appartati dall’operaio, insomma. Quando è nata, è nata con un po’ di distinzione. Io questo posso dirlo perché avevo un amico che lavorava alla SIAMIC, e abitava qui da me, ma lui era più vecchio di me… e allora, per farmi un regalo, mi portava con lui, e io mi confondevo insieme con quelli della UOEI, ma non andavo neanche giù [dalla corriera], perché non avevo i pantaloni e le scarpe, ero pieno di freddo, non ero attrezzato… allora avevo tredici – quattordici anni. Non c’era possibilità di partecipare a certe riunioni, a certe gite, non c’erano mezzi, ma neanche di vestiti… allora costumavano i pantaloni alla zuava… ma chi aveva i pantaloni alla zuava? Chi poteva…
[test. Remigio Salvagno, 30.4.1995]
Anche le fotografie dell’epoca mostrano comitive di gitanti ben vestiti, magari non ricchi ma dignitosi, e comunque visibilmente “orgogliosi” della loro presenza davanti al fotografo. Dopo tutto, anche il “tempo libero” era una conquista per chi doveva misurarsi con le urgenze del lavoro.
Ma proprio per questo lo “stile di vita uoeino” affascinava anche i lavoratori più poveri, e diventava ai loro occhi un obiettivo cui sacrificare qualche risparmio o, più spesso, qualche serata in osteria. In realtà, infatti, come da statuto, gli operai non mancavano, neppure nel consiglio direttivo. Soprattutto per loro l’UOEI rappresentava un’occasione di ascesa sociale: in una città dove erano ancora ben visibili le fratture di classe, le disparità economiche e sociali, l’associazione poteva mettere fianco a fianco l’operaio specializzato, l’impiegato e persino qualche professionista più democratico di altri.
Le uniformi, i distintivi, i gagliardetti e i propri inni; la Filarmonica Uoeina per le serate musicali, la Filodrammatica “Teatro del Popolo” per spettacoli educativi, una biblioteca per i soci; marce notturne, corsi di ginnastica, gare di ciclismo, di corsa, di sci; e poi, ogni anno, decine di appuntamenti, escursioni, gite istruttive e banchetti gastronomici: l’UOEI di Cabbia era un fiorire di iniziative che coinvolgevano parecchie centinaia di soci (fino a mille) e che avevano stimolato la nascita anche in provincia di sezioni “sorelle” (a Montebelluna, Mogliano, Conegliano, Spresiano, Orsago…), facendo di Treviso una delle avanguardie del movimento sportivo popolare e portando, nel 1924, lo stesso Cabbia alla presidenza del Comitato regionale veneto.
Già nel settembre del 1922 il giovane Candido era intervenuto, come presidente dell’UOEI di Treviso, al primo Congresso alpinistico delle Tre Venezie, sul Monte Grappa, pronunciando un impegnato discorso sull’Alpinismo operaio. Aveva spiegato, nell’occasione, quanto fosse importante riuscire a diffondere anche tra le “classi lavoratrici meno abbienti” la passione per la montagna e la pratica dell’alpinismo, uno “sport che – secondo le sue parole – se fortifica fisicamente, è palestra efficacissima di cultura educativa e morale”. E proprio per questo – aveva proseguito Cabbia – era preziosa un’associazione come l’UOEI, che si rivolgeva non ai ‘soliti noti’ delle “classi abbienti ed istruite” che già frequentavano il CAI, ma innanzi tutto agli “autentici operai, in modo che questi sentano la nobile e feconda ambizione di lavorare per la ‘propria’ associazione, di imparare a dirigerla”.
Su queste premesse erano fioriti i rapporti con altre associazioni di analoga ispirazione che agivano nel Trevigiano: fruttuosi, in particolare, erano i contatti con l’Università popolare (di orientamento laico e democratico), con la quale l’UOEI organizzava spesso visite culturali e ricreative anche fuori regione.
Anche della Società operaia di mutuo soccorso “Garibaldi” di Treviso, allora in mano ai socialisti, Cabbia era uno dei soci.
Nell’ambiente della borghesia cittadina, invece, l’UOEI poteva godere dell’appoggio di una attiva Unione goliardica tra gli studenti universitari, di cui Candido fu presidente fino allo scioglimento da parte del fascismo, nel 1925.
Poco più che ventenne, attraverso queste sue presenze nel tessuto associativo cittadino, il ragionier Candido Cabbia aveva acquistato notevole visibilità a Treviso. Alle elezioni comunali del 1923, un anno dopo la “marcia su Roma” che aveva portato al governo Mussolini, quel ragazzo accettò di candidarsi nell’unica lista “indipendente” che si era schierata contro il listone fascista, vincitore annunciato in un clima ormai a sovranità democratica limitata. Candido risultò uno dei sette eletti della minoranza. Resistette alcuni mesi in consiglio comunale, fino a quando, in risposta ad una sua richiesta di libere elezioni alla Società Operaia “Garibaldi”, fu apertamente minacciato dal sindaco Faraone di “essere trattato alla stregua degli ex esponenti del bolscevismo locale” (15 febbraio 1923). Di lì a poco (22 ottobre 1924), anche gli altri consiglieri della minoranza abbandonarono per sempre un’assemblea ormai infrequentabile e pericolosa, al grido di “Viva Matteotti! Viva la libertà!”.
4° Capitolo – Di chi sono le montagne?
Non erano stati davvero anni facili, quelli del primo dopoguerra. Le passioni della politica, i ricordi della grande guerra, le speranze per il futuro avevano alimentato grandi solidarietà ma anche forti rancori. Treviso era stata una delle città dove più duramente si erano scontrati i partiti dei “rossi” (repubblicani e socialisti), dei “bianchi” (popolari) e dei “neri” (fascisti).
Quando fu fondata la sezione dell’UOEI – nel gennaio del ‘22 – non erano passati che sei mesi dal giorno in cui duemila camicie nere erano calate da tutto il Veneto su Treviso e avevano messo a ferro e fuoco la città per dare una lezione ai “sovversivi” locali. A quel tempo, infatti, la lotta politica si svolgeva più sulle strade che nelle urne elettorali.
Ma una strana disputa politica si stava combattendo – molto più silenziosamente e con tempi molto più lunghi – anche sulle montagne. E, questa volta, tutta l’UOEI, e non solo il suo coraggioso presidente “San Candido”, era esposta in prima linea. Si trattava di una guerra non armata, ma tutta giocata sui simboli e sulle diverse interpretazioni che della montagna e dell’alpinismo venivano date. Una guerra che – come vedremo – era cominciata, quasi in sordina, già da alcuni decenni, contrapponendo laici a cattolici, socialisti a nazionalisti.
Era stato, per primo, un uomo del Risorgimento e ministro del regno come Quintino Sella a guardare alla montagna come ad uno strumento di educazione politica: l’alpinismo, ai suoi occhi, sarebbe dovuto diventare un’occasione per “fare gli italiani”, insegnando loro l’amore per il proprio paese. Anche per questo nel 1863 fondò il Club Alpino Italiano, che si espanse fino a raggiungere le 30 sezioni già alla fine del secolo.
Fu in questo ambiente, però, che l’amore per la montagna si intrecciò con un culto sempre più aggressivo della nazione, particolarmente sentito nelle terre “irredente” che erano ancora sotto la dominazione austriaca. Per i patrioti più accesi e per gli irredentisti, infatti, i monti d’Italia rappresentavano innanzi tutto i confini della nazione, da presidiare e – sempre più spesso – da contendere all’impero austro-ungarico: le società alpinistiche erano nate a Trieste e nel Trentino negli ultimi decenni dell’Ottocento soprattutto per esibire un vessillo di italianità. Sotto questi auspici, nelle Alpi si scatenò già allora una guerra simulata tra rocciatori e geografi italiani, austriaci e tedeschi per il possesso simbolico delle cime. Arrivare per primi, piantare la propria bandiera, fondare un bivacco, dare il nome alle vette, aprire sentieri, tracciarne le mappe, era diventato un modo per allargare (virtualmente, per ora) le frontiere e accrescere il prestigio della propria nazione.
Anche gli uomini di cultura laica e progressista (che si ispiravano a Mazzini e a Garibaldi e che con varie sfumature arrivavano fino al socialismo) avevano cominciato a guardare alla montagna come terreno di “conquista simbolica” verso la fine dell’Ottocento. La montagna dei democratici era innanzi tutto un luogo di piacere e di svago, dove trovare ristoro nella natura, lontano dall’ambiente cittadino che era allora poco salubre e sovraffollato, soprattutto per le classi povere. L’escursionismo, inoltre, era una buona abitudine da proporre come modello da imitare anche ai lavoratori – impiegati, operai e artigiani delle città – poiché nella montagna essi avrebbero potuto trovare una “distrazione” dalle fatiche quotidiane e un’alternativa alla “triste bettola fumosa” che finiva quasi sempre per assorbire il loro tempo libero e i loro risparmi. Qualche socialista riformista, poi, arrivava a pensare che l’alpinismo potesse essere anche una buona palestra di solidarietà, che abituasse gli operai a collaborare in vista di un comune traguardo. Come in questa poesia scritta dal socialista trevigiano Vittorio Gottardi: “La forza è nell’unione”.
5° Capitolo – La forza è nell’unione
Una poesia di Vittorio Gottardi
Su per un monte alto alto salìa Di giovani una balda compagnia. Ma scosceso era il monte, e ad ogni passo Alcun d’essi cadea, misero!, al basso. Disse loro un vecchietto: “O viandanti, Datevi man, se volete andar avanti…”. Così fecero. E s’uno sdrucciolava, o se era stanco, l’altro l’aiutava. E così unita insiem, serrata e stretta, La balda compagnia toccò la vetta.
La stessa Unione Operaia Escursionisti Italiani era nata (a Monza nel 1911) proprio su queste basi, nel tentativo di portare un po’ di giustizia anche nelle forme di divertimento e di avvicinare alla montagna, alle gioie dell’alpinismo e dell’escursionismo, anche quegli “operai” che fino ad allora ne erano stati esclusi.
Alla montagna dei “laici” (irredentisti e democratici), si contrappose presto quella dei cattolici. Non certo concepibile come luogo di piaceri e palestra di patriottismo, per i cattolici la montagna rappresentava innanzi tutto la manifestazione della potenza divina, e l’alpinismo non era che un’occasione di sottomissione, di sacrificio, di preghiera e di meditazione. Fu su queste premesse che, negli ultimissimi anni dell’Ottocento, la chiesa lanciò in tutta Italia una vasta campagna di consacrazione dei monti, trovando così un modo originale per contendere ai democratici e ai nazionalisti il controllo simbolico della montagna.
6° Capitolo – Chi può ricordare i morti della guerra?
La prima guerra mondiale segna una svolta radicale in questa lotta di simboli: è una guerra che si consuma in gran parte proprio sulle montagne, lasciandovi – nelle valli e nelle trincee – centinaia di migliaia di morti. E’ da quel momento che la montagna entra, per la prima volta, nell’immaginario collettivo degli italiani, dei reduci, dei caduti e delle loro famiglie.
L’immane lutto di massa legato alla grande guerra caricò le montagne (e quelle venete in maniera particolare) di una sacralità che le rendeva ancora più preziose nel contenzioso simbolico che su di esse si riaprì nel dopoguerra. Per tutti i partiti politici (repubblicani, socialisti, cattolici, nazional-fascisti), infatti, annettere i monti della guerra (il Grappa, il Cengio, l’Ortigara, il Pasubio…) al proprio campo divenne fondamentale per ottenere la simpatia o il consenso di tanti ex soldati che in quei luoghi avevano combattuto. Mettere il proprio sigillo su quei monumenti naturali a ricordo dei caduti era un modo per imporre la propria interpretazione della grande guerra, per ereditarne la “memoria” e dare così un senso al sacrificio di coloro che erano morti nel nome di una “patria” che si trattava ora di ricostruire su nuove basi: giustizia sociale o obbedienza ai signori? terra ai contadini o ritorno all’ordine tradizionale? un’Italia dei cittadini o dei sudditi? una guerra combattuta per liberare Trento e Trieste, per allargare la democrazia, o per aumentare i possedimenti del re e il prestigio dell’esercito?
Queste le domande che stavano dietro alla lotta simbolica sulle montagne e sulla memoria della guerra: una lotta che l’UOEI di Candido Cabbia combatté nel Trevigiano da protagonista, a campo aperto, organizzando passeggiate per raccogliere sottoscrizioni “pro mutilati”, “pro tubercolotici di guerra”, “pro alluvionati della Valcamonica”, “pro monumento ai caduti” e portando i suoi soci in pellegrinaggi laici nei luoghi delle battaglie, a ricordo dei caduti del Piave e del Grappa, e nelle terre “redente” del Trentino e dell’Istria.
Certo, durante le passeggiate, aiutati dalla fanfara e da qualche bicchiere bevuto a dispetto del motto sociale “Per il monte contro l’alcool”, i gitanti uoeini si saranno anche lanciati ad intonare qualche canto “sovversivo”, una variante di “Bandiera rossa”, un’irriverente canzone della goliardia o qualche battuta contro le camicie nere. Ma era soprattutto la loro attiva concorrenza sul terreno del patriottismo a infastidire i fascisti, che rivendicavano per sé l’egemonia sull’idea stessa di “Italia”: chi aveva una concezione non nazionalista di patria era automaticamente un “sovversivo”, un “bolscevico”, anzi, un non-italiano.
7° Capitolo – Come è andata a finire
Con il consolidarsi del regime, il fascismo strinse la morsa sulla UOEI. A livello nazionale impose la confluenza dell’associazione tra le file dell’Opera Nazionale Dopolavoro, causando malumori e lacerazioni in molte delle sezioni. L’assemblea uoeina di Treviso, all’unanimità, rifiutò di aderire alle organizzazioni fasciste. Il 2 novembre del 1926, per vendicare un fallito attentato a Mussolini, “La voce fascista” di Treviso esce “consigliando” ai più noti antifascisti di lasciare immediatamente la città.
Candido Cabbia, additato nel giornale tra il Bastardume in partenza, si allontana da Treviso; il suo ufficio è invaso e saccheggiato. Quindi scrive al questore:
Letto l’art. su “Voce Fascista” di stasera, ad evitare disgrazie e dolori ai miei cari, abbandono temporaneamente la mia Città. Protesto per il provvedimento che mi colpisce e che colpisce innanzi tutto la mia famiglia che vive col mio lavoro. Riaffermo di non essere inscritto in alcun partito politico, mentre da parecchio tempo, assorbito dalle cure del mio lavoro, non svolgo la minima attività politica, e non mi spiego quindi l’infierire sulla mia persona ed il nesso di questo coll’attentato a S.E. il Capo del Governo da me e dalla mia famiglia subito deplorato ier sera colla immediata esposizione ai balconi della mia casa, in piazza dei Signori, del vessillo Nazionale.
Mi permetto segnalare a S.V. la sorveglianza della mia abitazione e del mio ufficio (via Barberia 5) già stamane invaso e saccheggiato, ritenendo la legge dello Stato non permetta simili atti criminali, compiuti oggi da elementi individuati e che mi riservo di denunciare.
Sette giorni dopo l’UOEI di Treviso è sciolta d’autorità dal prefetto perché “svolge un’azione tendenzialmente contrastante con le direttive del Governo Nazionale” ed è formata da “elementi noti per sentimenti ostili al regime fascista”. Quando, dopo pochi mesi, lo stesso prefetto tentò di rifondarla su posizioni fasciste, i soci la disertarono.
Poco sappiamo della diaspora di quella prima UOEI trevigiana. Odino Fregonese – il socio claudicante con cui si sono aperte queste pagine – tentò dapprima qualche azione di propaganda antifascista, poi trovò rifugio sicuro in Francia. Costante Armellin – il trombettista della fanfara – si limitò a suonare in casa; nel 1930 fu arrestato e condannato dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato per attività comunista.
Candido Cabbia continuò a non avere vita facile a Treviso: si dedicò al suo lavoro nel campo commerciale, ma fu schedato e sorvegliato in quanto “sospetto in linea politica”. Anche a Roma, dal Ministero dell’Interno, si guardava a Candido Cabbia come ad un “sovversivo sospetto in linea politica” per la sua passata militanza nelle file repubblicane; a suo nome venne aperto uno dei fascicoli del Casellario Politico Centrale, che ne avrebbe seguito le mosse fino al crollo del regime.
Nel 1933 Cabbia preferì trasferirsi a Venezia. Due anni dopo riuscì finalmente a laurearsi in Scienze economiche e commerciali, con una tesi su “L’organizzazione delle fiere campionarie con speciale riguardo all’Italia”: a ridosso della battaglia sull’autarchia promossa dal fascismo, Cabbia costruiva il suo lavoro sull’assunto che “l’elemento che costituisce la base delle fiere è il commercio internazionale”.
8° Capitolo – La Memoria
Candido Cabbia torna per un giorno a Treviso nel 1949, quando l’UOEI viene fatta risorgere, all’indomani della Liberazione. E’ un ritorno che vuole sancire una continuità, e quasi la speranza di poter riprendere il discorso dal punto in cui era stato interrotto più di vent’anni prima.
In mezzo, però, c’era stato un ventennio pesante, che aveva inevitabilmente lasciato il segno nella società e nella mente delle persone. Un ventennio che aveva determinato nuovi equilibri, nuove egemonie politiche anche sul terreno “minore” dell’associazionismo popolare, dello sport e del tempo libero.
L’esperienza progressista della prima UOEI era stata recisa dal fascismo. Il regime aveva proibito ogni forma di autonomia organizzativa proveniente dal basso.
Attraverso la vasta rete dei Dopolavoro, lo stato era intervenuto direttamente nel tempo libero, dettando regole di condotta e cautelandosi da eventuali “sacche” di dissenso politico. In particolare, il controllo dell’educazione giovanile era un campo in cui il fascismo non desiderava avere concorrenti. Tra le istituzioni ricreative non direttamente legate al regime, solo le parrocchie erano rimaste in piedi, incamerando anno dopo anno anche tra il popolo cittadino quel consenso che si sarebbe manifestato appieno nel secondo dopoguerra.
Sbaragliata sul piano politico ogni tipo di organizzazione laica democratica, anche il controllo simbolico della montagna si ridusse ad un gioco a due, tra chiesa e regime. Le montagne, teatro della grande guerra, furono costellate di monumenti, sacrari ed ossari dove veniva sancita una nuova alleanza tra religione e stato, nel nome del culto della nazione e dei caduti per la patria.
Il monte Grappa, ad esempio, che aveva ospitato un tempo i liberali anticlericali del Cai e ascoltato le irriverenti goliardate di Cabbia e compagni, finì nel 1935 per accogliere invece, uno accanto all’altro, il vescovo di Padova ed il re d’Italia, venuti insieme sotto le statue della “Madonnina” e dell’”Italia fascista” ad inaugurare il Cimitero monumentale di Cima Grappa.
E’ inevitabilmente questo il retroterra che sostiene la rinascita dell’UOEI a Treviso nel secondo dopoguerra. Non sorprende, quindi, che anche i dirigenti uoeini non possano che muoversi all’interno di quelle coordinate, facendo benedire il gagliardetto e la nuova sede dal parroco, organizzando per i soci gite patriottiche nei luoghi della prima guerra, celebrandone il ricordo con una messa al campo.
Quando, nel 1957, la sezione trevigiana si assume il compito di organizzare il Raduno nazionale alpino della UOEI, è sempre a Cima Grappa che porta i suoi mille convenuti, ad ascoltare, uno dopo l’altro, un generale degli alpini (il presidente nazionale, Prospero Del Din), un cappellano militare e un ministro democristiano. In quello stesso luogo, trentacinque anni dopo il discorso di Cabbia sull’alpinismo operaio, molto ci si era allontanati dallo spirito e dalle abitudini della prima UOEI prefascista. Una così evidente commistione di simboli e di linguaggi, patriottici e religiosi, sarebbe stata impensabile per gli uomini di allora. La nuova UOEI – che pur continua a distinguersi e ad essere anche riconosciuta in città per le sue iniziative popolari e per l’ispirazione progressista – non trova più un autonomo sistema di simboli, cioè un modo di vivere e raccontare l’alpinismo che la differenzi dalla retorica nazional-cattolica. All’altezza del secondo dopoguerra, la battaglia era già stata persa, le montagne erano state ormai (simbolicamente) occupate, e per parlare di esse non si poteva che usare il linguaggio degli avversari di un tempo.
Al di là, forse, delle intenzioni dei dirigenti, nella nuova UOEI trevigiana l’oblio prevale sulla memoria dei suoi pionieri degli anni Venti. Nelle rievocazioni scritte di allora, non c’è parola ufficiale o riflessione su ciò che ha rappresentato il fascismo per la vita dell’associazione. Un abisso sembra avere inghiottito vent’anni di storia. Sul Grappa si commemorano ancora solo i caduti della prima guerra, senza alcuna parola, ad esempio, per le centinaia di partigiani che proprio su quel monte avevano trovato la morte appena pochi anni prima.
“Il nevaio” – la rivista che state leggendo – quando comincia le sue pubblicazioni, nel 1953, sembra priva di passato o di ricordi. Nello stesso anno, Candido Cabbia morì a Venezia: “Il nevaio” di dicembre gli dedicò alcune righe, commosse, ma senza alcun cenno a tutte le vicissitudini subite a causa della sua militanza uoeina e antifascista. Unico riconoscimento – a sottolineare una ormai muta fedeltà – la scelta di dedicare a lui – il fondatore – il nome della sezione trevigiana “Candido Cabbia”.
Dopo altri quarant’anni, una nuova generazione di dirigenti uoeini proprio da quel nome – ormai remoto e quasi misterioso – partirà per un viaggio a ritroso, per ritrovare la storia e le ragioni dei suoi “nonni”, per capire chi fosse stato “San Candido”, e perché fosse tanto amato e tanto odiato.